In questo amichevolo incontro tra la designer Rosita Missoni e il direttore della rivista specializzata di design Interni, si parla del passato della famiglia Missoni ma anche del presente e del futuro dell’azienda che ha saputo imporsi sui mercati internazionali. Famiglia, tradizione, tecnologia, moda e design sono gli argomenti trattati da Gilda Bojardi per il numero speciale Moda&Design dedicato ai lettori di Panorama a ottobre 2008.


Una vita legata alla moda: dalla storia di famiglia a Golasecca all’incontro di una vita con Ottavio Missoni. Come nasce “un’azienda felice”?
Con un innamoramento, naturalmente. Ho conosciuto Ottavio (Missoni, ndr) a Londra, era il 1948. Ebbi l’occasione di fare una gita con lui e altri amici. Lui era già un giovane uomo, campione olimpionico nella Nazionale, finalista per i 400 a ostacoli. Poi, nel 1950, invitato dalla mia amica Ivana, arrivò a Golasecca per una vacanza: lì il Ticino fu galeotto, ci sposammo nel ’53.

Lei apparteneva a una famiglia la cui azienda produceva tessuti ricamati e vestaglie da camera, anche Ottavio aveva il tessile nelle sua storia familiare?
Sì e no. Io sono nata nel ’31 e cresciuta in mezzo a ritagli e scampoli di tessuto. Fin da piccola, grazie a una sarta milanese che lavorava per noi e che aveva come “unica pretesa” quella di poter disporre in quel di Golasecca (nel cuore del Varesotto) di tutti i giornali del mondo, leggevo riviste di moda americane, francesi, italiane. Oltre alla cultura della moda ho avuto la fortuna di assorbire anche quella tecnologica: nella nostra azienda infatti c’era tutto, la tintoria, il ricamificio, vedevi un processo completo, dal filo tinto al prodotto finito. La storia di Ottavio è diversa: il padre era capitano di marina, la madre una contessa dalmata. Lui, rientrato in Italia dopo quattro anni di prigionia in Egitto (era stato fatto prigioniero dagli inglesi durante la battaglia di El Alamein), si mise in società con l’amico Giorgio Oberweger, acquistarono quattro macchine per la maglia e cosa facevano? Essendo lui un atleta, producevano tute in maglia di lana a coste, assolutamente funzionali. Una volta sposati abbiamo deciso di vivere a Gallarate poiché, come sostiene Ottavio, “A Trieste è più facile fare una nave che un golfino”. Ma soprattutto perché Ottavio era capitano della Società Ginnastica Gallaratese, vincitrice del campionato italiano d’atletica. La nostra casa era così ripartita: cento metri quadrati di appartamento e cento di laboratorio.

La tecnologia e di conseguenza il design hanno sempre fatto parte della storia della vostra azienda: lo storico telaio ‘Raschel’ usato per la lavorazione degli scialli e da voi trasferito nella moda viene citato perfino sull’enciclopedia on-line Wikipedia. Non è forse stata questa abilità che ha portato Ottavio e Rosita a essere “I Missoni”?
Con le dovute precisazioni. All’inizio il nostro marchio era Jolly (che ci portò fortuna) e, come tutte le giovani imprese, avevamo i conti da far quadrare, i debiti per i macchinari che riuscimmo a pareggiare solo nell’arco di cinque anni. A scoprirci fu per prima La Rinascente, tramite il nostro amico Louis Hidalgo, ex direttore di Biki, la sartoria milanese che vestiva Maria Callas – per cui noi facevamo dei golfini – che era stato incaricato dal grande magazzino milanese di realizzare il primo ufficio stile per la moda. Ci chiese di preparare delle piccole collezioni vendute dopo le sfilate di Parigi. Nel ’58 ci fu il primo abito intero di maglia replicato per diciassette manichini esposti da La Rinascente in un’unica grande vetrina. Conseguenza: primo ordine di 500 vestiti e un articolo di una pagina su Il Corriere della Sera con disegni di Brunetta. Fantastico! Confesso che quando abbiamo consegnato la prima fornitura degli abiti abbiamo un po’ bluffato: presentammo i capi con una piccola etichetta Missoni e non Jolly. Si arrabbiarono un po’. Noi ci giustificammo: “È un errore, è andata così. Se volete cambiamo”. Ma non c’era tempo e così è nato il marchio Missoni. A quel punto avevamo finalmente in mano un mestiere, sapevamo che la maglia avrebbe segnato il nostro destino.

Cosa distingue il vostro marchio dagli altri della moda?
Una grande capacità di mettere insieme i linguaggi e di sperimentare le tecnologie: nel ’68 per una sfilata a Firenze presentai una coppia di golfini fatti con dei filati speciali a due colori realizzati dall’azienda di famiglia quindici anni prima! Siamo stati gli unici a provare la macchina Rachel, che ha una lavorazione ibrida tra tessitura e lavorazione a crochet, tipo maglia, usata solo per produrre scialli frangiati, noi l’abbiamo utilizzata perché dava un effetto maglia ineguagliabile. Poi c’è sempre stata l’estrema creatività di Ottavio, la sua capacità sperimentale di mettere insieme i rigati, lo zig zag, gli scozzesi.

Gli anni Settanta sono stati formidabili per la moda firmata Missoni.
Abbiamo codificato uno stile. Nel 1970 abbiamo sfilato con una collezione in cui mettevamo insieme tutte le nostre esperienze di quindici anni di maglia: fu un grande successo, ci considerarono dei veri e propri trend setter e la rivista americana Women’s wear daily ci mise tra i fashion power dell’anno. Put together! È stato il nostro slogan, metti tutto insieme.

La moda e la collezione casa non sempre vanno a braccetto, nel vostro caso è stato il contrario. Ci parla di questa liaison?
Negli anni 70 fummo invitati a collaborare alla Fieldcrest e disegnammo per loro quattro collezioni letto e bagno distribuite con successo in tutti i principali grandi magazzini americani. A seguito di questa prima esperienza nell’83 ricevemmo dai miei fratelli Giampiero e Alberto Jelmini la proposta di creare una collezione con l’azienda di famiglia, la T&J Vestor: nacquero varie collezioni di tessuti d’arredamento, tappeti e biancheria per la casa che ebbero un periodo di grande successo ma che al mio occhio, dopo alcuni anni, sembravano eccessivamente “commerciali”.

Come e perché ha deciso di passare il guado dedicandosi esclusivamente alla home collection?
Quando nostra figlia Angela si decise finalmente a prendere le redini della collezione moda, dopo una breve pausa nelle vesti di nonna, sentii una specie di vuoto creativo e il bisogno di rimettermi in pista. Era la seconda metà degli anni Novanta. Inoltre sentivo che la casa stava diventando “di moda”, perciò ho chiesto ai miei figli e, successivamente, ai miei fratelli di occuparmene in prima persona.

Quali sono le linee guida di Missoni Home e in quali Paesi è distribuita?
Primo obiettivo è stato riprendere lo stile giocoso della moda e portarlo nella casa. Le fantasie, i pois, le farfalle, le righe, lo zig zag, le geometrie: tutto condito dal colore e dal bianco e nero che per me resta sempre un must. Un total look che va dall’accessorio al mobile, al tappeto. Per quanto riguarda i Paesi oltre l’Italia, abbiamo un ottimo riscontro in tutta Europa, negli Stati Uniti ma anche in Australia e in Giappone. Ci stiamo affacciando anche alla Cina. Inoltre stanno partendo due progetti Hotel Missoni che mi sono stati proposti da Matteo Thun per il gruppo Rezidor Hotel Group. Il primo, a Edimburgo, in pieno centro lungo la Royal Mile, l’altro a Kuwait City e per entrambi è prevista l’apertura a primavera.

Case, hotel, c’è qualche sogno irrealizzato nel cassetto?
Noi siamo appassionati di mare, un po’ per le origini dalmate di Ottavio, un po’ perché siamo proprio dei fan del mare. Oltre alla casa in Sardegna abbiamo un vecchio Burcio ormeggiato a Chioggia perfetto per affrontare la laguna, siamo spesso a Venezia dove ospitiamo gli amici per colazioni a base di baccalà mantecato e di fegato alla veneziana innaffiato da prosecco. Feste gioiose, come quelle organizzate durante la settimana della moda. Ora trovo che le barche che si vedono nei porti, quelle a motore s’intende, siano molto pretenziose ma lontane anni luce dalla cultura del mare. Mi piacerebbe progettare l’interno di una barca.

Si fa un gran parlare del fatto che gli appuntamenti milanesi della moda non creano quell’indotto sulla città che provoca, al contrario, il design nell’appuntamento del FuoriSalone di aprile. Si tratta di volontà differenti o più semplicemente che il design è più democratico della moda?
Le risponde una persona che vive entrambi gli appuntamenti. Milano diventa città internazionale soprattutto durante la kermesse milanese del design. La moda è più segreta, si rivolge soprattutto agli addetti ai lavori. Credo che la città con le sue istituzioni, musei, Teatro alla Scala, eccetera, dovrebbe attivarsi anche quando c’è la moda per creare dei momenti sinergici. Un bel tema su cui vale la pena scommettere.

Questo articolo è stato inserito Monday 24 November 2008 alle 4:22 pm.
Argomento: Aziende, Moderni.

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